Mgła – “Age Of Excuse” (2019)

Artist: Mgła
Title: Age Of Excuse
Label: Northern Heritage Records
Year: 2019
Genre: Black Metal
Country: Polonia

Tracklist:
1. “Age Of Excuse I”
2. “Age Of Excuse II”
3. “Age Of Excuse III”
4. “Age Of Excuse IV”
5. “Age Of Excuse V”
6. “Age Of Excuse VI”

È veramente possibile sconfiggere il proprio successo? Artisticamente, non vi sono dubbi. Ma risulta davvero umanamente fattibile superare ciò che, una volta inatteso e sconosciuto, ha marchiato con la sorpresa, con il ferro e il fuoco, con un’impronta carnale che più passa il tempo e più si fa mitica per astrazione, frenetica acclamazione popolare e pertanto indelebilmente incontrollabile, il tuo stesso nome nell’immaginario collettivo?
La meraviglia si fa così presto miseria; l’ascesa si fa vuoto. Superare sé stessi è una gara spesso sleale, ma vincere le attese cariche di corsa mediatica all’opinionismo è lottare contro un vero mulino a vento che si sposta facendo mancare inevitabilmente il bersaglio a chiunque.
È ristabilire la pace idilliaca dei giardini pensili di Babilonia in tempi di agitazione. È risanare il dolore e le atrocità comodamente inconcepibili di Tuol Sleng tramite l’esattezza del Comizio nonostante le crepe evidenti, che sporcano l’anima e la maledicono.
Ammesso abbia un senso, sarebbe dimostrarsi incuranti dell’ironia insita nel concetto che attribuiamo all’essere. Specialmente in una simile, distratta, enigmatica epoca.

Il logo della band

Combattere il proprio passato è una battaglia futile, una ad armi impari contro la natura umana che tutti i più grandi artisti conoscono bene: il presente ha per forza di cose una visione più ampia sul passato di quanto questo non possa averne avuta – e mai ne avrà. È una lama a doppio taglio: ricalcolo o labor limae, dunque? Oppure, magari, la terza via da trovarsi nel labour; quel concetto così caro a Thomas Stearns Eliot e che i Mgła sembrano aver fatto loro volta proprio da ormai molti anni a questa parte, l’apparenza sovversiva dell’archeofuturismo tanto quanto l’apparente paradosso intrinseco del non poi così distante modernismo di inizio ‘900 si rispecchiano in un dialogo strenuo tra passato e presente come unico mezzo per comprendere (o rassegnarsi proprio al non poterlo fare) la realtà circostante e conseguente ruolo degli artisti – quelli che scrutano attorno a loro con l’eleganza di chi sa stare eretto sulle spalle dei giganti e riassumere così la nozione di affinamento e parafrasi dell’attualità tramite la prova perpetua: pagare con il proprio ego, con l’estinzione della propria individualità, come pegno ultimo per lo svolgimento di un compito che va oltre il sé e cerca quella consapevolezza che poi altro non è che divenire medium della propria arte affinché questa si faccia patrimonio collettivo per donare non le risposte, bensì le domande più necessarie; un percorso di self-sacrifice per mostrare l’essenza dell’espressione, di contenuto che supera la forma. La mente dell’artista inizia così a funzionare come un ricettacolo di immagini, frasi, pensieri – che non possono essere mai nuovi (nulla lo è), ma vengono combinati in un’emozione artistica risultante che è, al contrario, novella ed irripetibile.
La coppia di musicisti polacchi conosce abbondantemente i propri mezzi, ma non è nel solo darne atto che si trova la chiave per la lettura più intima e feroce di un’opera come “Age Of Excuse”, quella consegnata invece mediante il senso di estrema urgenza ed imminente, infausta tragedia che il duo ha saputo infondere nell’interezza di un disco che -lo si dica a chiarissime lettere fin da subito- gode pertanto di un’intensità incontrollabile, strabordante, travolgente e quasi opprimente nell’esprimere le sfaccettature di una grandezza che ha dello stendhaliano.

La band

Passo dopo passo verso le profondità di panorami d’afflizione, “Exercises In Futility” dopo “With Hearts Toward None”, “Age Of Excuse” nell’hic et nunc e -perché no- “Groza” quanto “Mdłości” o “Further Down The Nest”; è l’a-temporalità che agisce simultaneamente, in un dialogo armonico tra presente e passato come marcia in direzione unica, estremamente sinergica nei suoi singoli movimenti che collaborano tra loro in un corpus produttivo che è di coerenza, razionalità, studio, maturazione e conoscenza stilistica invidiabili parimenti. Layer su layer in nuove disposizioni di musica ed osservazione sociale i cui grigiori si compenetrano inscindibili, nuove trame e nuove intuizioni, pedissequamente migliorate, impediscono di non rimanere ipnotizzati e galvanizzati al tempo stesso mentre il fluido scorrere di atonalità impietosa (eppure quanto accattivante) lascia spazio al solo filtrare meschino del sibilo dei ratti, all’orrore di un disarmonico canto di angeli soffocati e allo stridore insopportabile di denti; se il risultato non appare drasticamente mutato è solo perché nulla sembra averlo fatto nell’animo umano – di conseguenza, non è cambiato ciò che siamo disposti a vedere o sentire in una pura e caleidoscopica descrizione di ciò che la natura umana è.
I Mgła fanno esattamente questo: descrivono il cerimoniale della carogna, il suono di vane speranze che si infrangono al suolo frustandolo impietose, un pellegrinaggio verso e nel cuore di tenebra che è stato ormai prolungato in una ripetizione nauseante di visioni e suoni senza fine, lo squillare di trombe che annunciano l’elenco delle clandestine leggi della notte di Golding venire spiattellate sul giorno con la violenza assoluta e senza concezione delle legioni Khmer rosse; l’antinomia che lascia senza parole è esattamente il modo in cui la band riesce a scartare e variare sul delicatissimo tema con un’intelligenza e una profondità d’intenti -e di risultato- che prescindono la truffa dell’innovazione plateale e che sono direttamente proporzionali solo all’attualità di cui queste diventano specchio.
Non Amleto, non Lazaro – non profeti d’egoismo personale, non folli, i Mgła descrivono solitari e con personalità seriamente inimitabile i gironi (divenuti sei per l’occasione) affilando ancor di più i rasoi che grondano desolazione e grinta mai così furente al tempo stesso: una rassegnazione da visionari che, in quanto tale, non riesce a cedere per attitudine profonda ed inestricabile il passo alla sconfitta contro un mondo in cui la profondità di ricerca ed esperienza spirituale si fa sterile compasso morale, senza più accettare che in ogni più bel sogno vi sia sempre un doppio fondo di sporcizia e pericolo. Lo fanno con una prestazione strumentale da brividi, seconda solo all’inventiva paradossale e vitale in una simile proposta che vive del delicatissimo bilico con sé stessa, tra novità e strenuo consolidamento, tra i momenti devastanti e il più bruciante struggimento per un’aporia insanabile: la lama a doppio taglio consegnata all’uomo senza istruzioni d’uso che non siano delusioni, di cui si parlava all’inizio, quella che è specchio di un mondo binario in uno stato di perenne allerta e panico; il risultato dell’allineamento al pensiero unico che ha creato a ben vedere più mostri di quelli che voleva combattere. Perché ogni rivoluzione mangia i suoi stessi figli in un erostratico meccanismo di autodistruzione innescato fin dal suo principio, nella distrazione subdola di fare male agli altri sostituendo l’obiettivo con un crescendo di soddisfazione pulsionale.
Perché, in fondo, la natura umana è quel che è.

Con un simile sguardo a volo d’aquila non sorprende più che i Mgła abbiano -incredibilmente- sconfitto il proprio successo con la classe dei trionfatori, con musica genuinamente sinistra e a suo modo spavalda che si riversa in un set di brani tra i migliori in assoluto della loro intera discografia, migliorando di spanne ogni aspetto di ciò che ormai è indistinguibilmente il proprio ed alchemico suono, creando nuovi ed imprevedibili pattern in un songwriting di raffinatezza cristallina e persino aumentandone la spaventosa urgenza espressiva all’inverosimile; perché i due descrivono, forse quanto nessun altro, il nostro tempo e ciò che vedono circondarli con la forza di parole che ardono non meno del fuoco – e con l’intelligenza, nonché lungimiranza, dei più autentici profeti della caduta intenti nella creazione di uno dei dischi più sinceri e senza filtri che a chi scrive sia mai capitato di ascoltare. Solo questo basterebbe a riconfermarli (o forse renderli?) uno dei gruppi più attuali ed inestricabilmente contemporanei che il mondo della musica estrema attualmente possa testimoniare o finanche vantare; quelli capaci di veicolare in un disco la sincerità e riflessione critica più profonda tramite il ruvido sincretismo di musica e parole, aspetto di cui il mondo sembra più che mai avere disperata necessità, riuscendo a svelare il ribaltamento della metafora del cavallo come popolazione, il cui cavaliere ha abbandonato il frustino oppresso dal peso del fallimento mentre la nobiltà supposta dei leoni araldici ruggisce flebile dal fondo del cestino dei rifiuti della storia.
È davvero la sapienza -consapevoli che tanto il corso degli eventi, in un modo o nell’altro e senza un senso apparente, passerà sopra a tutto quanto- a muoverci verso il futuro più puro, più radioso, più limpido e migliore in cui agli agnelli sono promesse zanne?
Per difendersi?

“And I have known the arms already; known them all.” (T. S. Eliot)

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=X28j87akQVg

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